Appunti 03/19

Leggere lo sport - 1° Parte

Narrativa, ciclismo e corsa


Quando ho finito di leggere “Magnifici perdenti” di Joe Mungo Reed (edito da Bollati Boringhieri), ormai diversi mesi or sono, ho pensato: ecco cosa chiedo ad un romanzo che parli di sport...

In questo caso di ciclismoNon sono necessari tecnicismi, nomi esatti di luoghi e persone, pedanti descrizioni di movimenti e azioni. Quelli possono interessare soltanto, forse, agli addetti ai lavori, a chi quello sport lo pratica sul serio; o magari nemmeno a loro, proprio perché certe cose le conoscono già, e allora il rischio è di incappare in polemiche e in noiosissime “gare” a chi ne sa di più. E poi un romanzo non è un saggio, ha un altro arsenale da cui attingere a piene mani, e ritengo che lo sport tutto possa essere una fonte di ispirazione davvero notevole per chi voglia scrivere narrativa.

Può essere scenografia, mezzo attraverso cui raccontare qualcosa, ma anche il fine di una narrazione, il contenitore di principi ed emozioni che spesso viene snobbato a causa di una visione superficiale e prestabilita.

Lo sport è uno scrigno magico da cui escono metafore, alcune possono risultare banali e scontate, altre, lavorandoci bene, sono in grado di rendere immortale un libro (o un film). Chi vive o ha vissuto esperienze sportive ha sicuramente scritto mentalmente centinaia di racconti e romanzi. La partita del venerdì, l’allenamento finito in rissa coi compagni, la mezza maratona portata a termine nonostante i crampi già al sesto chilometro, la prima volta che hai scalato il Matajur con una bici da corsa…

Noi aspettiamo con grande trepidazione i romanzi che decidono di parlare di sport, un’occhiata gliela diamo sempre e comunque: a volte ci indigniamo dall’alto della nostra presunzione (“Aah, io so che non è possibile,  ai miei tempi si faceva fatica, ma quella vera” “Ma questo a basket non ci ha mai giocato, non conosce neanche le regole fondamentali”), altre volte ce ne innamoriamo perché toccano le corde giuste, quelle dello sportivo difficile, burbero, ma in fondo sentimentale.

Joe Mungo Reed ci descrive la quotidianità di un gregario, uno di quelli che cercano di scortare il ciclista più forte, indenne, al traguardo, o resistere con lui in salita il più possibile, o quantomeno preservarlo da inconvenienti nella pancia del gruppo. L’obiettivo, raggiunto, è quello di farci conoscere paure, pensieri e frustrazioni di questi atleti-ombra destinati a fatiche enormi nonostante un immutabile anonimato.

Non ci si ricorda di loro, ma sono i primi a rimetterci se le cose non funzionano come dovrebbero. Devono abbassare la testa e spingere sui pedali, ascoltare il proprio respiro, contare le pulsazioni, ignorare l’acido lattico che invade i muscoli. Tutte cose che chi va in bici conosce bene e chi non va in bici può, grazie al romanzo, immaginare.

E’ sicuramente più interessante che conoscere il rapporto con cui viene affrontata la tale salita, o i metri totali di dislivello. Per questi dettagli esistono i processi alla tappa o, per l'appunto, i saggi.

La vera materia letteraria è la vita del ciclista dentro e fuori dalla gara, ci viene aperta una finestra sull’asprezza di uno sport totalizzante e dei riflessi che può avere sulle vite private dei ciclisti e dei loro cari. E’ un romanzo che riesce a parlare non solo di sport. Ma lo sport è centrale, indispensabile, corpo narrativo vivo e protagonista.

Al che ho pensato che su due tra i miei sport preferiti, basket e ciclismo, non esistono molti romanzi. Eppure mi sembra che entrambi possano contare su argomenti, per così dire, letterari. Forse la pallacanestro possiede un grado di dinamismo difficile da tradurre in romanzo, forse gli aspetti tecnici rischiano di rendere sterile il racconto. Certo ci sono altre discipline che sembrano spontaneamente più adatte a diventare romanzi e film, che sono un potenziale trionfo di epica, etica e resistenza. Pensiamo ad esempio al pugilato, o al calcio. Eppure, personalmente, ritengo che tutti gli sport, o quasi, potrebbero aver senso riversati su carta e regalarci qualcosa, magari di inaspettato e per questo forse più intenso ancora. Come riesce a fare “Magnifici perdenti”.

Allora ci siamo messi a cercare altri romanzi (non saggi, di quelli ce ne sono a profusione, anche molto validi) sportivi, cose che abbiamo già letto o libri dimenticati, perché oltretutto, al goriziano piace un sacco lo sport ed è storicamente molto attratto da questa materia, anche in libreria. Non abbiamo la presunzione di aver rintracciato TUTTI i romanzi sportivi, proviamo comunque a fare una ricognizione, speriamo almeno coerente e interessante.

Per rimanere sui pedali, di recente è uscito il giallo “Omicidio al Tour de France” di Jorge Zepeda Patterson (edizioni Piemme) che inquadra il ciclismo da un punto di vista che potremmo definire “politico”: non vince mai il più forte, ma chi deve vincere. Questo in soldoni l’adagio del romanzo che, con un intreccio alla Agatha Christie, indaga sui giochi di potere che poco hanno a che fare con le biciclette, ma molto con i soldi che girano attorno alla kermesse. Uno sguardo interessante e obliquo in un libro che privilegia l’intreccio ma non manca di punzecchiare un po’ l’ambiente sportivo e a regalarci efficaci descrizioni delle fatiche degli atleti.

Il ciclista solitario” di Ramon Bodegas (Keller editore) invece utilizza il ciclismo all’inizio del romanzo come specchio dell’anima del suo protagonista, come simbolo di solitudine e desiderio di fuga che poi sarà una costante dell’intero romanzo.

Vittoria, sconfitta, sofferenza fisica, mentale, resistenza, etica, solitudine, immersione nella natura circostante… speriamo venga in mente anche a qualcun altro di montare in bicicletta con la penna in mano.

Corde simili possono essere pizzicate anche da autori appassionati di altri sport “di fondo”, come ad esempio la corsa, disciplina che è stata scandagliata con maggior frequenza per motivi svariati ma ugualmente appassionanti. Murakami Haruki forse è l’autore più noto ad aver tradotto in parole l’esperienza della corsa in un non-esattamente-romanzo autobiografico in cui esperienza fisica e mentale convivono concedendo all’autore alcune delle sue proverbiali divagazioni letterarie.

Il Giappone costituisce un’ambientazione privilegiata per quanto concerne la spiritualità, in tutte le sue manifestazioni, e la corsa rappresenta indubbiamente una delle discipline in cui autocontrollo e conoscenza di sé risultano determinanti.

L’italianissimo Franco Faggiani ha pubblicato un sorprendente romanzo per Fazi, “Il guardiano della collina dei ciliegi” che ripercorre le gesta di Shizo Kanakuri, atleta olimpico nipponico di inizio Novecento, e ci restituisce un frammento di storia terribilmente interessante, senza rinunciare però ad un ragionamento molto profondo sul correre. La corsa diventa un esercizio spirituale, una catarsi interiore, una sorta di preghiera intima.

Un riflesso spirituale forte e coinvolgente si ritrova anche nella filosofia della corsa dei tarahumara, antico popolo del Messico, per il quale si rende necessario il raggiungimento del limite fisico e mentale al fine di comprendere veramente ed interiorizzare l’essenza del movimento. Lo racconta Leonardo Soresi in “Il ragazzo che cavalcava il vento” (Ponte alle Grazie), racconto quasi antropologico che non manca di porre in evidenza i problemi sempre più pressanti di un paese complicato con un ingombrante vicino di casa.

Tornando in Europa è interessante notare come la corsa spesso rappresenti sì un riflesso interiore di chi la pratica, ma inteso come riscatto, catarsi individuale, mezzo attraverso cui conoscere più intimamente il proprio carattere e spiegare il proprio passato. Alan Sillitoe lo ha fatto con grande forza e originalità ne “La solitudine del maratoneta” (edizioni Mimum Fax) in cui chilometro dopo chilometro conosciamo Colin Smith, giovane talentuoso finito in riformatorio, in costante conflitto con i propri demoni e capace di un dibattito intimo che ci trascina fino all’ultima pagina.

Emiliano Gucci, con “Nel vento” (Feltrinelli), da vita ad un protagonista che approfitta del suo talento e della sua velocità per correre; ma in questo caso correre significa scappare: dal passato, dagli incubi, dal senso di colpa e di solitudine. Ma correndo, scappando, a volte si arriva da qualche parte.

Mauro Covacich invece orchestra una storia più complessa. “A perdifiato” (edito da La Nave di Teseo) è un romanzo di fughe e ritorni, la vita del protagonista e la sua carriera di maratoneta prima e allenatore poi, si intrecciano e avvicendano sulla scena in una metafora da cui emergono sentimenti contrastanti, ma molto umani.

Ed infine un caso molto interessante e originale: “La corsa di Billy”, di Patricia Nell Warren, Fazi editore. Questo romanzo degli anni ‘70 fece indignare e destò scalpore perché parla esplicitamente di omosessualità. E proprio questa è la causa per cui un allenatore, Harlan Brown, perde tutto ed è costretto a ricominciare da capo, nel completo anonimato. Sarà un giovane studente, a sua volta discriminato e gran talento nei 10.000 metri piani, a risvegliare il suo orgoglio. E lo sport? E’ lasciato sullo sfondo? Vi chiederete. No, lo sport è fondamentale. La corsa diventa motivo di riscatto, di lotta, di affermazione. La corsa è il cemento di una rapporto umano che trascende le dinamiche tra allenatore e allievo. Un libro importante, che ha ispirato la nascita dei “Front runners” (dal titolo originale dell’opera), gruppi di atleti dichiaratamente omosessuali, bisessuali o transessuali, che dal 1976 si sono diffusi in tutto il mondo per praticare sport liberamente senza nascondere le loro preferenze sessuali. La narrativa sportiva dunque può diventare anche manifesto per i diritti civili.

To be continued...