L’ormai notevole catalogo ospita autori del calibro di Virginia Woolf e Margaret Atwood, ma concede ampio spazio a giovani promettenti scrittori come Elvis Malaj (finalista al Premio Strega nel 2018) e da poco ha creato una collana dedicata alle singole novelle con la pubblicazione del capolavoro di Dambudzo Marechera “La casa della fame”.
- Evitiamo la domanda che tutti vi hanno sicuramente rivolto. Per cui iniziamo così: in un momento storico in cui tutto è rapido, in cui “non c’è tempo”, in cui notizie, storie, confessioni e intuizioni durano il tempo di un post, perché i romanzi sono considerati più attraenti dei racconti? Non ti sembra un controsenso?
Abbiamo appena attraversato una fase massimalista in cui gli editor sembravano essersi eclissati, si sono messi «in sonno», e sono stati pubblicati mammozzoni a volte sconclusionati pur di appagare l’ego dello scrittore e quello del lettore ansioso di ricevere e darsi pacche sulle spalle per avere digerito un leviatano di novecento pagine di digressioni illeggibili; ma non mi va neppure di fare l’elogio sperticato della brevità per la brevità, in fondo viviamo in tempi contraddittori, perfino twitter ha aumentato il numero dei caratteri a disposizione. Il racconto c’è sempre stato e ci sarà sempre, è una forma a sé, con una sua dignità, che il costante paragone col fratello grande, il romanzo, tende a svilire. Non ti nascondo che quando abbiamo cominciato c’era quest’idea che il racconto fosse la forma della contemporaneità, ma forse allora come oggi si tratta più di una formula commerciale che altro. I romanzi possono offrire un’immersività che il racconto difficilmente può dare. In compenso, le armi della short story sono tutt’altro che spuntate: una maggiore agilità, la possibilità di leggere varie storie anziché una, la capacità di arrivare al nodo nello spazio che intercorre tra le quattro-cinque fermate che facciamo per andare a lavoro. È un buon periodo per il racconto, certo non come gli anni ’80, ma allora c’era una vera e propria moda con i minimalisti e non solo.
- Che poi, il racconto è quello che usiamo quotidianamente: per giustificare un ritardo, intrattenere un ospite, fare i fighi ad una cena, addormentare un figlio… Dovrebbe attirarci spontaneamente e darci anche spunti utili!
La forma primigenia della letteratura è il racconto. Il problema è come sempre di natura industrial-editoriale ed è relativo all’abito sartoriale che è stato cucito addosso alla short story e alla sua fruizione da parte dei lettori. Una raccolta di racconti è più difficile da orchestrare assieme, presuppone già in sé una concezione da ridiscutere del libro come oggetto, e trovare una chiave di volta per raccontarla a qualcuno, un libraio, un lettore o un promotore, richiede uno sforzo che il romanzo ci evita.
- La vostra coraggiosa scelta non è passata inosservata. C’erano già (pochi) editori che ogni tanto pubblicavano raccolte di racconti, ma voi avete dato una scossa all’ambiente. Ed oggi si pubblicano molte più short stories rispetto a 3, 4 anni fa. Non pensate anche voi, modestie a parte, che non sia un caso?
Non credo lo sia, e ci è capitato di vedere raccolte che erano sepolte a prendere polvere in fondo ai cassetti di case editrici più grandi improvvisamente uscire fuori come d’incanto; ma per onestà dovrei dire che neppure la nascita di Racconti può dirsi casuale a questo punto. Se guardiamo al 2015, quando stavamo stilando il progetto e il catalogo della casa editrice, non si contavano riviste, concorsi e riflettori puntati sulla forma, c’era tutto un movimento che orbitava attorno al racconto. Cattedrale, effe, Watt, 8x8 e così via. Poi siamo arrivati noi a capitalizzare questo grande lavoro e forse una casa editrice era quello che mancava alla short story.
- Virginia Woolf, James Baldwin, Dambudzo Marechera, ma anche Elvis Malaj, Michele Orti Manara e Philip Ó Ceallaigh. La vostra “indagine” si rivolge sia al passato che al presente, eppure risulta molto armoniosa e omogenea. Qual è il filo conduttore, o i fili conduttori, che uniscono le opere che avete pubblicato?
Essendoci avocati il nome Racconti si è fin da subito avvertita l’esigenza di pubblicare gli scrittori che hanno reso grande questa forma. A distanza di tre anni quando guardiamo quei nomi e i libri che si sono andati assommando facciamo fatica a non provare una stilla di orgoglio: Stamattina stasera troppo presto di James Baldwin ha alcuni dei racconti più antologizzati della storia della letteratura americana eppure da noi non lo pubblicava più nessuno da 50 anni. Quella è stata un’intuizione davvero felice considerato che ha preceduto la riscoperta collettiva di questo maestro, ormai presenza fissa al cinema (If Beale Street Could Talk, I Am Not Your Negro) e costantemente nel dibattito pubblico americano e non (citato a piè sospinto da Obama o Ta-Nehisi Coates). John Cheever e Eudora Welty, due premi Pulitzer. Virginia Woolf e Margaret Atwood, ma anche la riscoperta di James Purdy e il ritrovamento di un autore formidabile come Marechera. Non c’è che dire, sicuramente il pregiudizio contro i racconti ha giocato a nostro favore e ci ha permesso di costruire un catalogo insperabile.
Ma oltre ai classici, bisognava fare ricerca, trovare nuove voci che potessero correre alla stessa velocità di quella leva. E a posteriori, quando ci siamo trovati a ragionare sulle scritture di Mia Alvar o Philip Ó Ceallaigh, Altaf Tyrewala e Stephen Graham Jones, ZZ Packer e Elvis Malaj, ci siamo resi conto che sono tutti stranieri della parola che abitano, sradicati che calzano i propri panni con qualche difficoltà in più rispetto al prototipo dello scrittore maschio bianco vista Manhattan cui siamo pigramente abituati. Si tratta di prospettive oblique e alternative, una letteratura di minoranza oggi più che mai nodale per la comprensione di ciò che accade attorno a noi.
- C’è una generazione molto interessante di giovani scrittori, molti dei quali scelgono il racconto come forma letteraria per esordire. Qual è il motivo? C’è maggiore libertà espressiva oggi nel racconto?
L’adagio vuole che il racconto sia palestra e non fine-ultimo dell’esordiente di belle speranze che si addestra al gran debutto del romanzo. È ovviamente un adagio che ha ragion d’essere e che funziona altrove più che da noi, precisamente nel mercato anglosassone, dove di norma allo scrittore si propone il doppio accordi per la prima raccolta e per il romanzo. Racconti, naturalmente, cerca scrittori di short stories più che aspiranti romanzieri, ma càpita sovente che autori più versati sulla lunga misura tirino fuori delle autentiche gemme, non necessariamente ripetibili. Penso a Lezioni di nuoto di Rohinton Mistry, per esempio, ai racconti di Yehoshua, o alle raccolte di Bowles e Bellow. Il più delle volte però si fa il cosiddetto svuotacassetti e ci ritroviamo i romanzi abortiti del grande autore, con sommo detrimento di tutti. Quanto alle nuove leve che scrivono racconti ne siamo felici, ma il problema vero è che spesso e volentieri questi racconti sono pensati indipendentemente dagli altri, sono della misura adatta a concorsi e riviste, e non si ragiona abbastanza organicamente sul libro di racconti. Un buon racconto può uscire a chiunque, ma noi cerchiamo libri e il fraintendimento tra lo scrivere buoni racconti e il pubblicare una raccolta è piuttosto frequente.
- Ciclicamente si sente parlare di “nuove voci”, “nuovi stili”, “Nuova narrativa”, poi leggi Marechera o Baldwin e ti rendi conto di quanto siano ancora innovativi e “devastanti”. E lo sono grazie alla loro autenticità. Forse è meglio puntare a questo, all’autenticità?
Sì, sono due scrittori formidabili per ragioni diverse e tutto sommato collimanti. In particolare Marechera fa veramente quello che Deleuze chiamava «balbettare nella lingua» trascinandola fuori dai propri solchi in un delirio lungo cento pagine. Ma permettimi un pizzico di polemica sul concetto di autenticità che oggi, in epoca di postverità e fake news, va ovviamente per la maggiore. Non credo che Baldwin e Marechera non abbiano sofisticato la propria lingua né ritengo che stia lì la loro forza. Piuttosto entrambi possedevano un’urgenza che è quella testimoniale di chi ha qualcosa da dire e un’ars narrandi per dirla nell’unica maniera possibile.
- Cosa deve evitare necessariamente uno scrittore in un racconto?
In generale, al raccontista si richiede una pulizia di esecuzione che al romanziere non è demandata. Uno tende a credere che sciatterie e binari morti dovrebbero essere messi al bando in una short story, eppure abbiamo letto tutti racconti che funzionano a meraviglia malgrado un finale a sorpresa disonesto o un incipit non in medias res e farraginoso. La realtà è che i racconti, come i romanzi o le poesie, si possono scrivere in migliaia di modi diversi, per cui Mark Haddon o il nostro Marco Marrucci possono prendersela col vecchio Carver e hanno tutto il diritto di farlo. Le scarne biografie dei nazisti americani di Bolaño e le scorribande surrealiste di Keret afferiscono alla stessa forma e nessuna scuola ha il diritto di mettere dei paletti «di stile».
- Prima di dar vita a Racconti avete lavorato in altre case editrici, avete scritto articoli e conosciuto da vicino il mondo editoriale: creare la vostra casa editrice nasce più da un’urgenza o dalla voglia di andare ad occupare uno spazio lasciato libero dall’editoria italiana?
Racconti, de facto, nasce perché io e Emanuele ci siamo trovati di fronte a un bivio che nemmeno Enrico Ruggeri… Eravamo appena tornati dai rispettivi stage nell’ambito del master della Sapienza e ci si prospettava la solita trafila sisifesca di stage mal o non pagati quando ormai ci sentivamo già formati e pronti per misurarci col mondo dei grandi. Quindi abbiamo deciso di saltare lo steccato d’un balzo e autopromuoverci dal rango di redattori semplici a editori senza portafoglio. L’ottica era quella del fai da te, di scontrarci con i vari aspetti del lavoro editoriale di cui fino a quel momento avevamo solo intravisto i contorni.
- Voi curavate anche uno dei nostri blog preferiti, “Altri Animali”, in cui si parla di letteratura a 360 gradi, si pubblicano racconti singoli, recensioni e non manca lo spazio anche ad altre case editrici. Cosa significa curare un blog letterario oggi e quali sono, secondo voi, gli obiettivi che deve perseguire?
Altri Animali nasce dalla volontà di costruire una comunità il più orizzontale e rizomatica possibile attorno a Racconti, ricalcando un po’ il modello virtuoso di minima & moralia con minimum fax. L’idea culturale era quella dell’approfondimento e della divulgazione, lo spirito era corsaro e gioviale. Negli ultimi mesi abbiamo notato che le due entità, Racconti e Altri Animali, procedevano sempre di più per strade separate e abbiamo deciso di sciogliere questo sodalizio ormai diventato innaturale, mantenendo ferme però le premesse di partenza e quindi allargando a una redazione più ampia la rivista e rinunciando a una presenza editoriale più massiccia. La svolta, anche grafica, si è già vista e Altri Animali ci darà ancora tante soddisfazioni, ne siamo certi.
- Cosa ci dobbiamo aspettare da Racconti nel prossimo futuro?
Escluderei un’opa ostile per acquisire il gruppo Mondadori, e mi concentrerei su un libro al quale teniamo particolarmente, anche in virtù di come sarà realizzato internamente. A ottobre, faremo uscire Coriandoli nel giorno dei morti di B. Traven, l’autore fantasma per antonomasia, altro che Elena Ferrante. Queste storie dalla giungla messicane, scritte forse da un teatrante anarchico bavarese o forse da un Ambrose Bierce datosi alla macchia, chi può dirlo, saranno introdotte, curate e illustrate anche negli interni da Vittorio Giacopini, che alla figura dello scrittore anonimo ha già dedicato il meraviglioso L’arte dell’inganno.
- La raccolta “Viaggi sulla luna” è una figata, lo sapete?
Ce lo state dicendo in molti e la cosa ci titilla moltissimo!
- Ora ci salutiamo con il nostro rito: di’ qualcosa ai nostri lettori, utile inutile non importa, quello che ti passa per la testa!
Ho recentemente scoperto l’opera omnia di (dei?) Bobby Joe Long’s Friendship Party, un post-post-punk romano-ammiccante intriso di orientalismo sul lungomare di Hammamet e una sana nostalgia per quando il tiki-taka non aveva ancora rovinato lo sport più bello al mondo. Molto consigliati se come me sognate un nuovo Psi e De Michelis redivivo che balla in discoteca.
- Grazie mille e speriamo di vederci presto, qui nel nord-est più estremo!
Per forza!